Cervellati e l’urbanistica mancata
tra visione partecipata e delega al privato
Bologna è spesso raccontata come città progressista, culturale e attenta alla qualità della vita. Nei discorsi ufficiali, nei piani di marketing urbano, nei report delle amministrazioni, la città appare come un laboratorio di innovazione, sostenibilità e partecipazione. Ma chi la vive giorno per giorno sa che l’immagine patinata e la realtà quotidiana raramente coincidono. L’urbanistica contemporanea di Bologna sembra muoversi lungo logiche opposte a quelle pensate da pensatori come Pier Luigi Cervellati, figura di riferimento per l’urbanistica partecipata e integrata, tra il 1964 e il 1980 assessore al traffico, all’edilizia pubblica e privata e all’urbanistica a Bologna, e che per decenni ha teorizzato la città come organismo complesso, dove spazi, servizi e comunità devono crescere insieme.
Cervellati vedeva la città non come un insieme di edifici e infrastrutture isolate, ma come un ecosistema urbano in cui ogni intervento doveva rafforzare la coesione sociale, la fruibilità pubblica e la qualità della vita. Le sue teorie insistevano su un principio fondamentale: la progettazione urbana deve partire dalle esigenze degli abitanti e non dalle esigenze di visibilità politica o dagli interessi economici di pochi soggetti. I quartieri devono dialogare tra loro, gli spazi pubblici devono essere inclusivi e accessibili, i servizi devono essere distribuiti in modo equo e integrato.
Oggi Bologna appare invece una città “a compartimenti stagni”, frammentata da cantieri infiniti, nuovi quartieri che crescono come enclave, aree verdi utilizzate più come vetrina che come bene comune, e una mobilità urbana che privilegia il marketing politico e le esigenze di sponsor privati rispetto alla funzionalità reale. La gestione urbana è sempre più delegata a fondazioni pubblico-private: enti ibridi che promettono sostenibilità e innovazione, ma operano spesso secondo criteri manageriali e logiche di profitto. In questo scenario, i cittadini diventano fruitori passivi, spettatori di una città che viene progettata “per loro” e non “con loro”.
Le grandi operazioni di rigenerazione urbana – dalla riqualificazione dei quartieri centrali alla costruzione di nuovi poli residenziali e commerciali – evidenziano il contrasto con le visioni cervellatiane. Spesso, i progetti seguono logiche di marketing territoriale, attrattività turistica e ritorno economico immediato, più che esigenze sociali o culturali. Le periferie, che secondo Cervellati avrebbero dovuto diventare laboratori di innovazione sociale, sono invece marginalizzate e isolate, mentre il centro diventa vetrina di consumo culturale e immobiliare. La città reale, quella vissuta quotidianamente da pedoni, ciclisti, studenti e residenti, si scontra così con una progettazione urbana che sembra prodotta più per brochure e rendicontazioni politiche che per la vita dei cittadini.
La mobilità urbana è un altro punto in cui il divario tra teoria e pratica è evidente. Cervellati auspicava reti integrate di trasporto pubblico, percorsi pedonali e ciclabili che fossero coerenti con le funzioni dei quartieri e favorissero la socialità. Oggi Bologna, tra deviazioni, cantieri continui e piste ciclabili frammentarie, sembra muoversi invece secondo logiche di comunicazione politica e vetrina urbana, dove ogni progetto viene pubblicizzato come innovazione, ma raramente si traduce in miglioramento reale della qualità della vita. Gli abitanti si muovono in una città in cui la progettazione sembra ignorare la quotidianità, con conseguenze tangibili sulla sicurezza, sull’efficienza e sulla fruibilità degli spazi pubblici.
Anche la gestione della cultura e degli spazi pubblici rispecchia questo modello. Teatri, biblioteche, musei e festival vengono sempre più spesso affidati a fondazioni pubblico-private, che operano secondo logiche di marketing e sostenibilità economica, a scapito della partecipazione diffusa. Questo modello contrasta con la visione cervellatiana, in cui gli spazi culturali dovevano essere strumenti di inclusione, coesione sociale e crescita collettiva. Bologna rischia così di trasformarsi in una città a doppia velocità: un centro scenografico, attrattivo e ben promosso, e periferie marginalizzate, spazi pubblici deserti o ridotti a pacchetti di consumo estetico.
Rileggere Cervellati oggi significa non solo ricordare una visione urbanistica, ma proporre un’alternativa concreta: una pianificazione che metta al centro i cittadini, che valorizzi spazi pubblici e verde come beni comuni, che consideri le periferie non come vuoti da colmare, ma come risorse da connettere, e che restituisca al Comune il ruolo di garante della coesione urbana. Significa anche rifiutare una delega totale al privato e alle fondazioni, e ripensare i meccanismi di governance per renderli trasparenti, partecipati e orientati al bene collettivo. Cervellati insegnava che la città è viva quando cresce insieme alle persone che la abitano, quando gli spazi favoriscono incontri, dialogo e sperimentazione sociale. Bologna, tra cantieri, fondazioni e narrazioni di progresso, rischia invece di diventare un museo di sé stessa: bella da vedere, frammentata nella vita quotidiana, e lontana dall’idea di città come organismo integrato. Ripensare la città alla luce della sua lezione non è nostalgia: è un atto di responsabilità verso chi la abita, verso chi la trasforma e verso il futuro della comunità urbana.