La cultura come macchina di propaganda
Musei, biblioteche e comunicazione sotto un unico cappello: efficienza o centralizzazione del consenso?
Il Comune di Bologna celebra la nascita del nuovo Dipartimento Cultura come un momento di “condivisione e comunità”. L’operazione ha accorpato in un unico organismo musei, biblioteche, attività culturali con la promessa di efficienza e cooperazione. Una mossa che viene raccontata come innovativa, ma che nasconde una precisa logica: concentrare nelle mani di pochi dirigenti non soltanto la gestione del patrimonio culturale cittadino, ma anche gli strumenti narrativi con cui questo patrimonio viene reso visibile, raccontato, legittimato.
Cultura come strumento di consenso
A Bologna la cultura non è mai stata neutrale. È da decenni un terreno privilegiato di costruzione dell’immagine della città: festival, mostre, biblioteche digitali e restauri monumentali sono presentati come prova di una vocazione civile e inclusiva. Ma dietro la facciata si muove una macchina che funziona anche come apparato di propaganda. L’accorpamento della comunicazione al dipartimento Cultura segna un passo ulteriore: non solo si gestiscono contenuti e patrimoni, ma si controlla anche il modo in cui questi vengono narrati e recepiti dal pubblico. La cultura diventa così il veicolo perfetto per un racconto unico, senza contraddizioni visibili.
I lavoratori in trincea
L’entusiasmo celebrativo si è incrinato proprio durante la presentazione ufficiale al cinema Modernissimo del 29 settembre scorso, quando i lavoratori del settore hanno interrotto l’evento denunciando ciò che è sotto gli occhi di tutti: carenza di personale, precarizzazione, esternalizzazioni. Negli ultimi 15 anni il personale dei musei e delle biblioteche si è dimezzato; oggi sedi storiche come il Morandi o l’Archiginnasio sopravvivono con organici ridotti all’osso. E mentre il Comune predica “condivisione e comunità”, lascia scadere le graduatorie di concorso e riduce i fondi per attività educative, mostre e acquisti librari. Una contraddizione che rivela come il nuovo assetto organizzativo sia più un maquillage politico che una risposta reale ai bisogni del settore.
Il nodo delle fondazioni pubblico-private
Altro aspetto cruciale è l’affidamento crescente di pezzi di cultura pubblica a fondazioni miste, dove il pubblico fornisce spazi, prestigio e personale, e il privato porta risorse economiche ma anche interessi propri. È un modello che scivola progressivamente verso una privatizzazione mascherata, in cui le logiche di marketing e sponsorizzazione condizionano programmazioni e scelte. La centralizzazione operata dal Dipartimento Cultura rischia così di trasformarsi in un hub che smista risorse e visibilità più verso i partner “strategici” che verso i cittadini.
“Mi rivolto nella tomba”: la petizione consegnata al Comune
Completamente ignorata dalla stampa la petizione lanciata dai lavoratori e dalle lavoratrici della cultura che ha raggiunto quasi 4000 firme. Durante la plenaria al cinema Modernissimo, alla presenza di oltre 300 dipendenti del neonato Dipartimento Cultura, le sigle sindacali hanno ribadito unitariamente le proprie istanze: il personale dei musei e delle biblioteche comunali è dimezzato con sedi storiche ridotte a organici minimi e servizi a rischio. La protesta non riguarda solo i numeri: i sindacati denunciano l’assenza di assunzioni, la scelta di lasciare scadere graduatorie di concorso e l’aumento esponenziale delle esternalizzazioni.
Una comunità o una vetrina?
L’assessore e le dirigenti parlano di comunità, di lavoro trasversale, di nuove sinergie. Ma nella pratica, con meno personale, meno fondi e più esternalizzazioni, quella comunità è sempre più fragile. Bologna rischia di perdere l’anima della sua tradizione culturale pubblica – fatta di biblioteche accessibili, musei civici gratuiti, servizi diffusi – per trasformarsi in una vetrina di eventi e progetti, funzionali a un racconto di città “creativa” e “attrattiva” per turisti e investitori.