Urbanistica: tre paradossi ed una pericolosa analogia
Tra le ultime riflessioni di Piero Cavalcoli, questa analisi restituisce tutta la lucidità, la coerenza e l’impegno civile che hanno contraddistinto il suo pensiero e la sua azione pubblica.
Con sguardo critico e rigoroso, Cavalcoli mette a confronto i modelli milanese ed emiliano-romagnolo, individuando tre paradossi che tengono oggi prigioniera l’urbanistica. Un testo di straordinaria attualità, che suona come un monito e un lascito: ricordarci che il governo del territorio è, prima di tutto, un atto di responsabilità verso la comunità e l’ambiente. Antigene.
Urbanistica: tre paradossi ed una pericolosa analogia
Riflessioni sul modello milanese e quello bolognese, a seguito della legge 1987, oggi 1309, dopo la approvazione della Camera. Prendendo spunto dalla straordinaria testimonianza di Barbacetto, voglio limitarmi a tre spunti di riflessione, riferiti ai paradossi che ormai tengono prigioniera l’urbanistica e l’amministrazione delle città.
- Semplificazione procedurale e complicazione normativa
Il primo paradosso riguarda l’ossessione della ricerca di semplificazione nella procedura amministrativa degli strumenti urbanistici.
Da quando questa ossessione tormenta l’urbanistica?
Quanto sul Fatto Quotidiano Barbacetto ha raccontato su Milano e sui cosiddetti “grattacieli di rigenerazione urbana” e quanto riassume il suo documentatissimo libro che oggi commentiamo, è venuto alla luce nel lungo periodo che ha preparato le ultime competizioni elettorali, locali e regionali, che ha occupato tutto lo scorso anno. Ma i fatti riguardanti l’intensa attività del Comune meneghino nell’edilizia, si riferiscono ad operazioni immobiliari di un periodo certamente più lungo, pressappoco collocabile a partire dall’Expo del 2015 fino ad oggi, come puntualmente ci dice il libro. Un periodo significativo per le vicende urbanistiche di Milano, ma non solo di Milano. Significativo anche per i ripetuti tentativi di soddisfare questa ossessione di semplificazione tramite le leggi regionali.
Expo è stato infatti l’evento che ha consacrato sindaco Sala, sostanziale organizzatore dell’esposizione, proprio perché considerato il più adatto a gestire complesse ed estese operazioni di cattura dell’investimento immobiliare. Particolarmente adatto, in altre parole, a promuovere un’estesa “attrattività”, come oggi è consuetudine chiamare il successo nella ricerca di investitori immobiliari. L’episodio ha finito col consacrare un Sindaco assieme al suo modo di amministrare.
Da questo momento, in altre parole, attrarre un numero sempre maggiore di investitori immobiliari è divenuto sinonimo di capacità amministrativa. E molti Sindaci hanno cominciato a guardare ed imitare quel che faceva Milano. Nell’intesa che per soddisfare gli investitori non si può farli aspettare.
Fin qui nulla di troppo insensato. Senonché i fatti ci dicono che Sala, alla lunga, per continuare ad attrarre investitori ha finito col di dimenticare le regole, non solo quelle nazionali, progressivamente indebolite ma mai del tutto azzerate e sostituite, ma anche quelle regionali, cioè quelle che, in fondo, sono le prime responsabili delle ferite inferte alla legge nazionale.
Di quali leggi si parla allora quando, come Sala, si sostiene che siamo di fronte a diverse interpretazioni? Certo non di quella nazionale, molto chiara al proposito, e tale da non permettere interpretazioni diverse da quelle sostenute dai giudici (e poi, per Sala, la legge dello Stato manco esiste: in fondo, “ha più di ottant’anni”).
Dunque Sala parla di quella regionale, la 18 del 2019, una di quelle che hanno tentato di smontare la legge nazionale, evidentemente invano.
Sta proprio qui la prima analogia con l’esperienza emiliana e con Bologna. Analogia nelle intenzioni, anche se non nel metodo: mentre quella emiliano romagnola abbandona il corpo normativo precedente (la 20/2000), quella lombarda modifica la precedente 12 del 2005.
Ma in ogni caso il risultato è il medesimo: un groviglio di norme di lettura estremamente faticosa e di dubbia interpretazione.
Eccolo il paradosso, dunque: la ricerca della semplificazione delle procedure è operata, in entrambi i modelli, attraverso la complicazione delle norme, costituite da continui richiami al testo precedente nel caso lombardo, e da parti diverse e conflittuali (una contraddice l’altra) in quello emiliano/romagnolo.
Viene perciò da chiedersi se, in fondo, la scelta di produrre difficoltà di lettura e la conseguente esigenza interpretativa non sia poi il vero obiettivo: si lascia intendere, in altre parole, che l’unica via per semplificare le procedure, per paradosso, sia quella di complicare talmente le norme da renderle incomprensibili, aperte dunque a qualsiasi interpretazione, da servire sostanzialmente on demand, alla bisogna.
- Eclisse dell’urbanistica e permanenza della corruzione
E veniamo al secondo paradosso.
La Corte dei Conti, l’organismo che controlla e vigila sulle entrate e le spese della pubblica amministrazione, è arrivata a sostenere che ogni anno il sistema della corruzione inghiotte circa 60 Miliardi di Euro, una cifra pari a tre Finanziarie. E ci ricorda che l’urbanistica e i lavori pubblici sono le materie in cui sommamente si concentrano le occasioni di scambio (di favori, di beni, di denaro).
Alle ricorrenti occasioni di scandalo in questo campo (ricordiamo l’ultima, della Regione Liguria, ma non dimentichiamo le imprese di Giancarlo Galan in Veneto, di Roberto Formigoni in Lombardia e di Toto’ Cuffaro in Sicilia) sembra tuttavia corrispondere la progressiva eclisse che ha coinvolto i temi tradizionali dell’urbanistica e della pianificazione.
I tempi in cui l’urbanistica e la pianificazione erano per lo più intesi come riferimento per battaglie di progresso civile e di equità sociale sembrano del tutto tramontati.
Assistiamo dunque ad un secondo paradosso: la materia è ancora al centro degli interessi della politica, ma è totalmente invertita la direzione di marcia: ciò che una volta (in una buona quota dei casi) si progettava e si gestiva per una comunità è oggi in prevalenza progettato e gestito a favore di una sola parte: i ceti economicamente più forti, le categorie coinvolte nella produzione dei patrimoni edilizi e nelle opere pubbliche, quelle capaci di trarre profitto dalle scelte di trasformazione dei patrimoni immobiliari e dalle compravendita delle aree. Insomma, la rendita fondiaria.
Di conseguenza, per rispondere prontamente al mito dell’attrattività, al panorama di norme confuse e incomprensibili, e alla conseguente eclisse della urbanistica, ha corrisposto inevitabilmente una centralizzazione nelle decisioni.
Anche in questo caso Lombardia ed Emilia Romagna registrano inquietanti similitudini: le decisioni si concentrano in Giunta, l’Assemblea Consigliare è chiamata solo a ratificarne le decisioni e gli uffici a rilasciare le conseguenti autorizzazioni, che rimangono un patto nascosto o comunque difficile da conoscere, in continua mutazione ed assestamento, fino a che ti accorgi che ti tagliano gli alberi nel parco vicino a casa, non vedi più il sole dalla finestra, ti hanno tolto marciapiedi e parcheggi.
- Declino corporativo ed abbandono di visione olistica
Che è successo dunque alla disciplina, che ha sostanzialmente mutato natura? Vediamo il terzo paradosso,
Alla domanda su cosa sia successo può dare una prima parziale risposta qualche riferimento al declino di quello che è stato il glorioso strumento associativo degli urbanisti italiani, l’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU).
Non è possibile naturalmente, se non in estrema sintesi, dar conto dei grandi meriti che l’INU ha accumulato nella fase della ricostruzione del paese fino agli anni Ottanta/Novanta del secolo scorso, costituendo affidabile punto di riferimento per una corretta applicazione della legge e per la difesa dei principi della disciplina.
L’autorità dell’INU derivava, oltre che dai nomi prestigiosi dei suoi affiliati, dall’accorta miscela delle sue componenti, tutte e tre indispensabili portatrici di competenza e di rigore disciplinare: le istituzioni locali e regionali, che mettevano in grado il loro personale tecnico di discutere le problematiche progettuali ed amministrative quotidiane con il Gotha della disciplina; i docenti universitari, che traevano dalle discussioni in Istituto l’occasione per aggiornare continuamente il proprio patrimonio di conoscenze, da offrire ai loro studenti, e dai tecnici progettisti, chiamati sulla base delle discussioni con le Amministrazioni e con l’Università, a redigere i Piani.
Questo straordinario e fruttuoso equilibrio ha espresso la propria potenzialità fino agli anni Ottanta/Novanta del Novecento, spesso contribuendo a virtuose stagioni di legislazione nazionale e regionale e a straordinari confronti disciplinari, coinvolgenti le migliori Università italiane: Venezia, Firenze, Milano, Napoli e Palermo.
L’avvento del berlusconismo e della letale “Legge Obiettivo” produrranno i primi sostanziali arretramenti, nella disciplina e nel comportamento degli iscritti. Sempre più si farà strada, nell’INU, purtroppo con il colpevole contributo bolognese (a lungo alla guida della direzione nazionale) una interpretazione corporativa del mondo dell’edilizia e degli interessi delle categorie professionali sempre più incline a risultare di supporto alle scelte degli investitori immobiliari.
E così, tra i soci, gli insegnanti universitari finiranno con il preferire, allo insegnamento, il compito di redigere essi stessi i Piani; i pianificatori saranno tentati dalla progettazione edilizia e alla diretta attuazione dei propri piani, gli amministrativisti dall’aggiornare le leggi regionali, finendo per cedere alla tentazione di favorire gli uni e gli altri.
L’ideologia corporativa finirà con l’infettare le amministrazioni, anche quelle più progressiste ed avvedute. L’urbanistica, che, come diceva Indovina, “è politica tecnicamente assistita” finirà col diventare “corporazione, assistita dalla politica”.
Questo sostanziale arretramento risulterà di particolare evidenza anche nel processo di formazione della nuova legge urbanistica emiliano/ romagnola: i cosiddetti stakeholders saranno il principale riferimento per le scelte di indirizzo del nuovo strumento normativo, ad essi ed alla loro disponibilità di investimento sarà rivolta la nuova disciplina; essi stessi contribuiranno alla formulazione del testo, e ad essi verrà affidata la competenza di monitorarne, assieme alla Giunta, l’efficacia.
Matura così il terzo paradosso: a stabilire le strategie e, alla fine, a valutare gli effetti della legge sulla tutela del paesaggio e sul consumo del suolo saranno chiamati esclusivamente proprio i principali responsabili, per oggettivo interesse, delle calamità che si dichiara di voler combattere.
Concludo.
I paradossi descritti sono necessariamente produttori di conflittualità.
Il difficile accesso ai documenti relativi a decisioni compiute sulla base di norme incomprensibili e necessitanti di continue interpretazioni, l’assenza di convincenti finalità sociali e la presenza di opacità nelle decisioni, l’esclusione delle organizzazioni dei cittadini dagli organismi di controllo, formati esclusivamente da coloro che andrebbero viceversa controllati in quanto portatori di interessi e non di convinzioni o di saperi, tutto ciò non può che generare una crescente avversione nei confronti delle scelte territoriali ed urbane.
Il moltiplicarsi della conflittualità urbana lancia dunque segnali che sarebbe irresponsabile sottovalutare.
Si tratta della richiesta che ogni decisione di aumento della densità urbana, in qualche misura inevitabile se si vuole metter fine alla espansione e al consumo di suolo, abbia come limite il miglioramento delle condizioni di vita di chi già abita nelle zone di intervento, e non il loro peggioramento.
Questo era infatti ciò che veniva tutelato dalle prescrizioni normative che il provvedimento approvato alla Camera vuole annullare. Del tutto motivate, dunque, le reazioni di ciò che rimane del mondo della disciplina e della difesa dell’ambiente.
Ed altrettanto motivata la speranza che il Senato non approvi un provvedimento che riporta l’urbanistica al far west dei primi anni del secondo dopoguerra.