La città

Consumo di suolo a Bologna e in Emilia Romagna

non si vuole cambiare rotta

A Bologna e in Emilia-Romagna si continua a consumare suolo, con l’evidente beneplacito degli amministratori pubblici. I dati del nuovo Rapporto Ispra dicono che non solo il consumo di suolo vergine aumenta, ma l’Emilia-Romagna, con 1.013 ettari, è la regione che nel 2024 ne ha consumato di più, 4.504 ettari negli ultimi cinque anni, ben di più dei 1.416 ettari dei cinque anni precedenti.

La regione si dimostra una divoratrice imperterrita di suolo, che continua ad asfaltare, cementificare e impermeabilizzare terreni a ritmi voraci, sempre di più ogni anno. Dai 611 ettari degli anni 2012-17 ai 770 degli anni 2017-20 ai 901 degli anni 2020-23 ai 1.013 attuali (pari a 453 mq per abitante contro una media nazionale di 366). Quest’anno, 200 ettari più dell’anno prima, a fronte dei 143 ettari ripristinati: da quando è iniziata la rilevazione nel 2006, in Emilia-Romagna si sono consumati 14.727 ettari di suolo vergine e ne sono stati ripristinati appena 1.416.

Anche la provincia di Bologna conferma lo stesso trend – più suolo consumato nell’ultimo quinquennio rispetto al precedente – come lo conferma il comune di Bologna: 29,23 ettari nel 2024, contro i 21,31 dell’anno precedente, i 16,73 di due anni prima, i 12,17 di tre anni prima e i 5,67 ettari di quattro anni prima, con un incremento cumulato crescente nell’ultimo quinquennio maggiore del precedente. L’artificializzazione di suolo è trainata dall’urbanizzazione: Bologna è la quinta tra le città italiane per aumento della densificazione del nucleo urbano ed è la seconda, dietro Milano, per superficie urbana densificata.

Consumare suolo significa renderlo artificiale, alterarne l’ecosistema, per usi che vanno dalla costruzione di edifici e infrastrutture alla impermeabilizzazione per aree industriali, destinate a centri commerciali e per la logistica alla copertura con pannelli solari. Tuttavia, il suolo non è tutto uguale. In Emilia-Romagna, il 68,6% delle superfici edificate ricade in aree a pericolosità sismica, il 5,8% in aree a pericolosità da frana e il 62,8% in aree a pericolosità idraulica media. Il 35,6% delle aree edificate, tra l’altro, si trova in zone rurali (più di ogni altra regione), mentre le zone ad alta densità di suolo consumato e bassa densità di popolazione (assimilabili a zone produttive), non rurali, ospitano il 7,2% degli edifici. Insomma, quasi il 43% delle aree edificate non si trova in aree propriamente urbane.

Di quei più di mille ettari consumati nel 2024, risalta il fatto che 661 sono stati occupati da cantieri (contro i 361 dell’anno precedente), il valore più alto in Italia. E non è vero, purtroppo, che quel suolo prima o poi tornerà “vergine”. Del suolo consumato per cantieri dal 2006, in regione, solo il 28,9% è stato rinaturalizzato, il 10,3% è rimasto destinato a consumo reversibile, mentre il rimanente 62,8% è stato assorbito dal suolo reso permanentemente artificiale.

Sono stati poi aggiunti 11,5 ettari di nuove strade e infrastrutture, 104 ettari per impianti fotovoltaici e ben 107 ettari per poli logistici e aree destinate ai centri commerciali. Dal 2006, agli impianti per la produzione di energia solare è stato dedicato, in regione, il 12,7% di nuovo suolo, che rientra solo teoricamente nella quota di consumo di suolo “reversibile”, dal momento che le superfici rimangono destinate a tale scopo per decenni (perdendo gran parte della loro funzione eco-sistemica).

L’incremento di suolo per poli logistici e centri commerciali in Emilia-Romagna, invece, è stato eclatante. Tra il 2006 e il 2015, il consumo medio è stato di 38 ettari l’anno, salito a 59 ettari annui nel triennio successivo e a 69 nel triennio 2018-21, 126 ettari nel 2022, 98 nel 2023 e 107 ettari nel 2024, per un totale di 1.052 ettari. Un’area enorme.

La cosa che più sorprende è che la nostra regione, com’è noto, ha registrato alluvioni nel 2023 proprio a causa delle intense precipitazioni che più hanno manifestato i loro effetti dannosi nelle zone a più alta pericolosità idraulica e da frana. Ciò nonostante, nel 2024 sono stati consumati in regione ben 860 ettari in aree a pericolosità idraulica media o alta e ben 20 ettari in aree a pericolosità da frana media, elevata o molto elevata. Davvero eclatante. Inoltre, una cospicua parte degli incrementi di suolo consumato in Italia si trova in aree ad alta pericolosità sismica ed è concentrata in Emilia-Romagna (692 su 2.652 ettari in tutto il Paese, è la regione con la quota più alta).

Infine, va segnalato che ben 1.828 ettari consumati in regione sono in aree protette (con un aumento, nel 2024, di 131,4 ettari). Un dato davvero sconcertante.

In sostanza, se l’artificializzazione e la cementificazione del suolo hanno continuato ad aumentare, ci sarebbe di che chiedere conto ai nostri amministratori: alle ultime elezioni avevano promesso un cambio di rotta e ciò che si è avuto è solo un’accelerazione su quella stessa rotta. Nel 2023, le forze politiche al governo si erano presentate alle elezioni con un impegno diverso, che, a quanto pare, hanno totalmente disatteso. Tutto quel suolo consumato – in aree protette e fragili, franose, a pericolosità idraulica e sismica – non poteva essere destinato altrimenti? Un terzo del territorio regionale, ci dice Ispra, è ora degradato. Non si potevano fare altre scelte? Gli ettari destinati a cantieri, a strade, a nuovi edifici, a poli logistici e centri commerciali non si potevano trovare altrove, recuperandone tra quelli già cementificati?

La nostra regione, come altre, è stata di recente vittima di eventi climatici estremi che hanno manifestato la loro devastante potenza su territori proni, sui quali si era costruito e si continua a costruire. Alla luce di questi dati, dobbiamo concludere, non si vede proprio come si possa contare sulle promesse fatte a proposito di governo del territorio.

Intervista a Pier Giorgio Ardeni
Pier Giorgio Ardeni




Pier Giorgio Ardeni, professore di economia politica, ambientale e dello sviluppo all’Università di Bologna, si è occupato a lungo di Paesi in via di sviluppo e ha lavorato con organizzazioni internazionali in progetti di assistenza in diversi Paesi in Europa orientale, Africa e Asia. Studioso di economia e storia, ha scritto sulla storia dello sviluppo italiano, sulla grande emigrazione italiana a cavallo del Ventesimo secolo, sulla Resistenza, sulle classi sociali, le disuguaglianze economiche e i loro riflessi sulle dinamiche elettorali. Tra le sue pubblicazioni recenti: Le radici del populismo. Disuguaglianze e consenso elettorale in Italia (Laterza, 2020); Alla ricerca dello sviluppo. Un viaggio nell’economia dell’Italia unita (Il Mulino, 2022) e La trappola dell’efficienza. Ripensare il capitalismo per uno sviluppo diverso (Luiss UP, 2024), scritti con Mauro Gallegati; Il ritorno della storia. La crisi ecologica, la pandemia e l’irruzione della natura (Castelvecchi, 2022); La classi sociali in Italia oggi (Laterza, 2024); Sviluppo al capolinea. Le crisi che l’Italia deve risolvere per non precipitare (Meltemi, 2025).

Da quali fonti hai ricavato i dati sul consumo di suolo e come hai verificato la loro affidabilità?
I dati provengono dal Rapporto annuale 2025 su Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici dell’ISPRA Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale. Sono i dati più attendibili e precisi a livello nazionali, raccolti grazie ad un processo di costante monitoraggio effettuato dall’Istituto e dalle Regioni.
In base alla tua analisi, quali sono le decisioni politiche più determinanti che hanno accelerato il consumo di suolo in Emilia-Romagna negli ultimi anni?
Il problema è che non vi sono state decisioni specifiche cui si possono attribuire le dinamiche in corso. Piuttosto, si tratta di tendenze che le politiche hanno per lo più assecondato, con logica “produttivistica”, secondo la quale la cosa più importante è fornire allo sviluppo delle attività produttive la possibilità di sfruttare le risorse naturali – il suolo in primis – a piacimento. Non solo distruggendo ambiente ed ecosistemi, ma contribuendo, in tale modo, all’emissione di gas serra e al cambiamento climatico. Certo, la legge urbanistica regionale ha contribuito a questo “permissivismo”: si permette tutto, a partire dal consumare suolo, purché non sia “dannoso” (ma solo in termini sanitari).
Cosa, nello specifico, non funziona della legge urbanistica regionale del 2017 e quali correttivi ritieni indispensabili?
In Italia non esiste ancora una legge nazionale completa sull’azzeramento del consumo di suolo, ma l’obiettivo è fissato a livello europeo (Agenda 2030) e nazionale nel Piano per la Transizione Ecologica entro il 2050. L’obiettivo “netto zero” non significa bloccare le costruzioni, ma che qualsiasi nuova urbanizzazione deve essere compensata da interventi di ripristino di aree già consumate, come la riqualificazione di periferie o la de-impermeabilizzazione di terreni. La legge urbanistica dell’Emilia-Romagna per il consumo di suolo a “saldo zero” stabilisce che il consumo di suolo deve essere bilanciato da interventi di riqualificazione di pari superficie entro il 2050. Ciò significa che l’espansione urbana su nuove aree è permessa solo se compensata dalla bonifica, riqualificazione e rinaturalizzazione di aree già urbanizzate, secondo il principio (invero un po’ fantomatico) della cosiddetta economia circolare. Le nuove costruzioni sono consentite solo per opere pubbliche, strategiche, o per esigenze abitative in casi eccezionali, qualora non vi siano alternative di riuso o rigenerazione di aree già edificate
Come abbiamo visto dai dati illustrati sopra, siamo ben lontani da quell’obiettivo e andiamo esattamente nella direzione opposta. Dal 2006, in Emilia-Romagna si sono consumati 14.727 ettari di suolo vergine e ne sono stati ripristinati appena 1.416.
L’articolo suggerisce tensioni tra obiettivi ambientali e strategie di sviluppo economico: puoi approfondire quali settori o attori economici influenzano maggiormente le scelte urbanistiche?
Gli obiettivi ambientali rimangono per ora dichiarazioni di principio, che non possono non essere messe in evidenza nei programmi elettorali. Nella pratica, le politiche seguono altre priorità. La nostra regione ha ancora una certa vocazione agricola (e degli allevamenti) e una notevole vocazione industriale, in vari settori. Sono tutti settori consolidati, ma ben poco si è fatto negli anni, ad esempio, per cambiare le logiche che sottintendono gli insediamenti industriali. Spesso, come è accaduto con Philip Morris o con Toyota (per citare solo i casi più recenti), si concedono aree vergini per gli stabilimenti industriali, invece di riqualificare aree dismesse. C’è poi il settore della logistica, in grande crescita. Ciò che preoccupa, ad esempio, è che non si prefiguri (o si immagini, semplicemente) una diversa politica dei trasporti: tutto è ancora fondato sul trasporto su gomma (su strada), con gravi effetti in termini di emissioni.
Quanto margine di manovra reale hanno le amministrazioni comunali nel contrastare il consumo di suolo, e dove invece sono vincolate da Regione e pianificazione sovraordinata?
I comuni hanno pochi e ristretti margini di manovra per quanto riguarda le strategie industriali e delle imprese private, in ogni settore. E non hanno grande voce in capitolo per influenzare quelle scelte. Potrebbero però intervenire con pianificazioni più stringenti circa l’uso del territorio, non andando ad aggredire le aree rurali e a scarsa densità abitativa. E potenziando al più possibile la riqualificazione verde, non eliminando aree boschive e verdi. Nelle aree urbane le temperature estive sono di regola fino a 5° più alte che nelle aree rurali. Ogni metro quadro di verde contribuisce ad abbassarle. Non un singolo albero andrebbe tagliato. Un albero mangia anidride carbonica. Ci mette 50 anni per diventare grande e in grado di contribuire all’assorbimento di CO2. Ed è ora, non tra vent’anni, che abbiamo bisogno di ridurre i gas serra. Ci sono poi centinaia, se non migliaia, di edifici dismessi, inutilizzati, che quando si pensa a tutto il nuovo che viene costruito c’è da mettersi le mani nei capelli. Per non parlare delle strade: abbiamo davvero bisogno di strade nuove, con tutte le centinaia di km di strade che abbiamo? I comuni possono fare molto.
Hai riscontrato casi particolarmente eclatanti di nuove edificazioni in aree a rischio idraulico o sismico? Come si giustificano queste scelte?
I dati regionali sono allarmanti, anche se bisognerebbe saper quali esattamente sono le aree a rischio dove si è continuato a cementificare e impermeabilizzare. Certo è che dopo l’alluvione c’era da aspettarsi uno “zero” a quella voce. E invece, si è continuato, con logica perversa, vicino a corpi idrici, nelle zone franose, pensando che, comunque, nuove costruzioni con criteri “moderni” non avranno problemi… Tali scelte vengono giustificate dicendo che si è sempre fatto, che gli eventi climatici estremi non si verificheranno sempre e che… meglio ricostruire che cambiare mentalità (ma le vite perse, e i patrimoni perduti…?)
Nel tuo lavoro, hai percepito un deficit di trasparenza nei processi decisionali o una scarsa partecipazione dei cittadini?
C’è un deficit di comunicazione e di accountability (rendere conto): io ti prometto zero consumo di suolo, ma poi faccio come credo, non rendo conto, non ti informo del perché. Lasciamo stare l’ipocrisia (che è comunque da lamentare), ma il non rendere conto ai cittadini delle scelte fatte è grave. Non basta dire: ci avete votato. E non basta nemmeno dire, ci avete rivotato. È la correttezza e la coerenza delle scelte che andrebbe premiata. Riguardo alla partecipazione, è noto che i temi ambientali sono visti (e sentiti) come di interesse solo per gli “ambientalisti” (anzi, tanto più questi se ne occupano, tanto meglio starne alla larga per parte della pubblica opinione e dei media dominanti). Ma questo è ovviamente un errore di cui anche gli ambientalisti poco si preoccupano. Le questioni ambientali non ci riguardano solo perché hanno a che fare con la nostra “salute” (vedi la qualità dell’aria) o sono così “generali”, come il riscaldamento climatico, che è ben poco quello che possiamo fare. Tanto più contribuiamo a fermare lo scempio che stiamo facendo della natura e degli ecosistemi, tanto più ne godrà la nostra vita, fisica e interiore.
Quali strategie ritieni più urgenti e realistiche per coniugare rigenerazione urbana, sicurezza territoriale e riduzione del consumo di suolo?
Far parlare le esigenze “naturali” del territorio in primis e agire nei vincoli stretti che questo impone. Non costruire su fiumi e terreni pericolosi, non impermeabilizzare nuovo suolo, privilegiare il verde – sempre e comunque – su qualunque altra scelta. Si può fare, senza immaginarci un mondo impoverito in cui «non ce n’è abbastanza per tutti». Perché, se continuiamo così, davvero non ce ne sarà per tutti.
Alla luce della crisi climatica e degli eventi estremi degli ultimi anni, quali scenari vedi se le politiche attuali non cambiano?
Pessimi. Noi in regione siamo anche più colpevoli perché contribuiamo alle emissioni di gas persino più di quello che produciamo, in proporzione, e di quanti siamo. Fossimo virtuosi potremmo dare la colpa agli altri, al mondo. Ma è proprio (anche) colpa nostra.