Armi o Pane?
Gli Effetti Materiali dell’Aumento della Spesa Bellica sui Cittadini
Nel vertice del 24 e 25 giugno 2025 a L’Aia, nei Paesi Bassi, gli Stati membri della NATO hanno ufficialmente stabilito che, entro il 2035, ciascuno dovrà destinare alla difesa una quota pari al 5 per cento del proprio Prodotto interno lordo (PIL), L’Italia dovrebbe arrivare a spendere oltre 100 miliardi di euro l’anno, con un onere aggiuntivo cumulato stimato tra 165 e 220 miliardi per la sola difesa nei prossimi dieci anni, e quasi 300 miliardi per il complessivo delle spese collegate. L’Italia si è presentata all’appuntamento di fine giugno con l’obiettivo del 2% già conseguito, grazie a un aumento di 9,7 miliardi rispetto all’1,54% del 2024.
Il bilancio che si svuota altrove
Ogni euro speso in armamenti è un euro sottratto ad altro. La retorica ufficiale tende a separare la “difesa” dal resto della spesa pubblica, come se i soldi uscissero da un pozzo senza fondo. Ma il bilancio dello Stato è fatto di scelte: aumentare la spesa per carri armati, droni e sistemi d’arma significa ridurre le risorse per la sanità, l’istruzione, i trasporti pubblici, il welfare. Nel 2024, l’Italia ha speso oltre 30 miliardi di euro in difesa, con aumenti costanti anno dopo anno. Intanto i Pronto Soccorso chiudono per mancanza di personale, le scuole cadono a pezzi, i treni regionali vengono soppressi e le liste d’attesa per esami diagnostici superano i sei mesi. Il trade-off non è teorico: è quotidiano.
Disuguaglianze crescenti, sicurezza decrescente
L’aumento della spesa militare viene giustificato con la necessità di “sicurezza nazionale”. Ma che tipo di sicurezza garantiscono le armi, in un paese in cui milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà, e l’accesso ai servizi essenziali è sempre più frammentato? Nulla di tutto ciò si ottiene con un F-35. Anzi, lo squilibrio tra spese militari e sociali alimenta proprio l’instabilità che si vorrebbe combattere: tensioni sociali, insicurezza abitativa, abbandono scolastico, precarietà diffusa. Aumentare i bilanci della difesa in un contesto di crisi sociale significa soffiare sul fuoco delle disuguaglianze, senza risolvere le cause profonde dei conflitti.
Industria militare vs. economia civile
C’è poi l’aspetto industriale. I sostenitori dell’aumento delle spese belliche parlano di “ricadute economiche” e “occupazione”. Ma la realtà è che l’industria della difesa è altamente concentrata, automatizzata e spesso esternalizzata. Non crea occupazione diffusa, ma profitti per pochi. Al contrario, investimenti nella sanità, nella scuola, nelle energie rinnovabili generano più posti di lavoro e più valore sociale per ogni euro speso.
Inoltre, finanziare le aziende belliche significa legare lo sviluppo economico a una logica di guerra permanente, in cui l’innovazione tecnologica è subordinata alla capacità distruttiva. Una società che investe nella pace costruisce ospedali, non missili.
Cultura dell’emergenza e consenso forzato
Un altro effetto materiale – spesso sottovalutato – è quello culturale e politico. L’aumento della spesa militare si accompagna a una narrazione emergenziale: il pericolo è ovunque, e serve una risposta forte, univoca, armata. Questo clima legittima il restringimento degli spazi democratici, la militarizzazione delle frontiere, la repressione del dissenso interno. In nome della “sicurezza”, si finisce per giustificare l’insicurezza sociale e civile.
Intanto, i cittadini diventano spettatori passivi di scelte opache, siglate in sedi internazionali o tra ministeri e colossi industriali. Chi ha mai votato per investire miliardi in armi nucleari tattiche o sistemi di sorveglianza militare? La democrazia si riduce, mentre la spesa cresce.
L’impatto sulla città
L’aumento della spesa bellica ha impatti concreti e materiali sulle città, spesso invisibili nel dibattito pubblico ma profondamente percepibili da chi le abita. Non si tratta solo di una questione di numeri statali, ma di trasformazioni urbane, sociali e ambientali che derivano da un bilancio pubblico orientato alla militarizzazione anziché al benessere. Quando lo Stato destina decine di miliardi alla difesa, i fondi per trasporti pubblici, edilizia scolastica, sanità territoriale, casa e transizione ecologica vengono tagliati o congelati. Con la crescita della spesa militare, molte città vedono una militarizzazione strisciante degli spazi urbani con il potenziamento di infrastrutture “dual use” (es. strade, porti, hub) che servono tanto scopi civili quanto strategici o militari (ad es. Leonardo). Un aumento della spesa bellica si accompagna spesso a politiche di sicurezza urbana rafforzate, con effetti materiali ben visibili.
L’altra sicurezza possibile
Criticare l’aumento della spesa militare non è un esercizio ideologico, ma una presa d’atto materiale. Le scelte di bilancio hanno effetti diretti sulla vita delle persone: meno servizi, meno equità, più tensioni. Se davvero vogliamo sicurezza, dobbiamo cambiare paradigma: disarmo progressivo, investimenti pubblici per i beni comuni, cooperazione internazionale, giustizia climatica e sociale. Perché la vera domanda non è “come ci difendiamo?”, ma “come vogliamo vivere?”. E la risposta, oggi più che mai, passa dalla cura – non dal controllo; dalla solidarietà – non dalla deterrenza. Pane, non armi.