Bologna a passo di gambero
Dal “modello Bologna” alla speculazione al gusto di mortadella
Il PEEP per il centro storico: un progetto pioneristico di rigenerazione urbana.
Il termine rigenerazione urbana, a cui ormai nessun amministratore di città grande o piccola può rinunciare, spesso nominandolo a vanvera, preso nella sua accezione culturale più avanzata può essere definito come l’insieme dei programmi di recupero e riqualificazione del patrimonio edilizio esistente, al fine di limitare il consumo di territorio salvaguardando il paesaggio e l’ambiente e migliorare la qualità della vita nelle aree urbane degradate, dismesse o obsolete. I principali obiettivi di tali programmi sono: Riuso e riqualificazione, Sostenibilità ambientale, Inclusione sociale, Sviluppo economico.
Potrebbe sembrare un caso – e non lo è – ma questi sono i medesimi intenti perseguiti e raggiunti dal Piano per l’Edilizia Economica e Popolare (PEEP) per il centro storico di Bologna del 1973, predisposto dall’allora assessore all’edilizia Pier Luigi Cervellati.
Dal punto di vista urbanistico, l’intento principale del PEEP era il mantenimento della struttura urbana, così da impedire lo spopolamento della città storica a discapito delle periferie: “per poter intervenire nel centro storico bisognava smettere di costruire fuori”. Cervellati non si riempiva la bocca di parole, ora svuotate del loro significato reale (consumo di suolo, rigenerazione, resilienza, inclusione …), agiva, e ha fatto.
L’idea di fondo del PEEP era semplice. Nel centro storico viveva ancora una numerosa popolazione di famiglie, anziani, ceti popolari, piccoli artigiani, invece di espellerli e ghettizzarli in aree periferiche da costruire ex novo, il comune acquisisce e restaura le abitazioni degradate, per poi affittarle a canoni accessibili agli stessi abitanti. In questo modo l’abitazione diventa “servizio sociale”, non è più “bene produttivo”.
L’intervento pubblico, tramite i fondi statali destinati all’edilizia economica e popolare, mirava a contrastare l’abbandono e il degrado, permettendo ai residenti di rimanere in centro, evitandone così la “gentrificazione” e la trasformazione in luogo riservato ad uffici e a residenze ed attività commerciali di lusso.
In più, per la prima volta in Italia, l’intero centro storico viene considerato e trattato come “unico monumento”, andando oltre alla tutela di singoli edifici “di pregio”. Il piano prevedeva interventi di risanamento e restauro che si opponevano alla demolizione e alla ricostruzione indiscriminata. Si è così preferito il recupero di tutto il patrimonio esistente, con l’intento di preservarne l’identità urbana, storica e architettonica, a costi che l’analisi di Cervellati ha dimostrato essere socio-economicamente più vantaggiosi rispetto alla costruzione di nuove aree periferiche.
Purtroppo sappiamo come è finita. Grazie all’abbandono delle politiche che avevano ispirato il PEEP, negli ultimi anni è stato avviato quel processo di gentrificazione sociale del centro storico che Cervellati aveva a suo tempo scongiurato, e che sta portando, tra l’altro, all’espulsione di buona parte degli abitanti e degli studenti.
Il PRG del 1980 e il “modello Bologna”
Lo stesso Cervellati, da assessore all’urbanistica, redige il Piano Regolatore Generale (PRG) del 1980, con il contributo determinante di Giuseppe “Bubi” Campos Venuti, consulente e ispiratore delle politiche innovative che hanno permeato il piano. Si tratta di uno degli strumenti di pianificazione più celebri e influenti nella storia dell’urbanistica italiana, i cui principi fondanti erano: freno all’espansione e consumo zero di suolo, recupero e riuso, nuovi servizi nelle periferie, lotta alla rendita fondiaria.
Fino a che il PRG è stato vigente, pur con alcuni limiti, almeno tre dei quattro obiettivi sono stati perseguiti con sufficiente successo. È invece mancato il compimento di quella che Campos Venuti ha chiamato “la terza Bologna”, ossia la riorganizzazione delle periferie come luogo per localizzare i nuovi servizi e le residenze, riequilibrando la città e rendendola policentrica.
La legge urbanistica regionale del 2017 e il PUG bolognese: della rinuncia all’urbanistica e la vittoria della speculazione
Con la LR 24/2017, la nuova legge urbanistica dell’Emilia-Romagna, ed il conseguente Piano Urbanistico Generale di Bologna, i principi fondanti che hanno caratterizzato l’urbanistica riformista e di sinistra dalla fine degli anni Sessanta, sono diventate vuote enunciazioni, prive di alcun riscontro nell’articolazione dei nuovi strumenti urbanistici. Principi elencati dal PUG, quali rigenerazione urbana, consumo di suolo a saldo zero, tutela del territorio agricolo e dell’ambiente, città più resiliente, ecoreti verdi e blu, inclusione, … si sono rivelati solo fumo negli occhi.
Per quanto riguarda la lotta alla rendita fondiaria, tanto cara a Campos e a Cervellati, si è rinunciato anche a nominarla.
Il PUG si pone addirittura l’obiettivo di “sostenere la crescita demografica della città”, ribaltando l’assunto urbanistico secondo il quale le città crescono seguendo la crescita demografica: non si è mai visto un incremento demografico determinato dalla costruzione di nuove case.
Con l’intento, presentato come innovativo ma che, come abbiamo visto, a Bologna viene perseguito almeno dall’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, di “consumo di suolo a saldo zero”, il PUG ha individuato le aree di crescita edilizia della città all’interno del tessuto urbano esistente. Se si trattasse di riconvertire e riutilizzare aree industriali dismesse, come si è fatto in molte città ex-industriali in Europa e nel mondo, ciò avrebbe un senso. Il punto è che a Bologna non esistono ex impianti industriali da smantellare e bonificare, a Bologna ci sono soprattutto aree non utilizzate o sottoutilizzate dal punto di vista edilizio per varie ragioni storiche (si pensi ai Prati di Caprara ed alle numerose ex caserme), che sono invece una risorsa ambientale e sociale inestimabile nel cuore città, in quanto in gran parte permeabili, per lo più libere da costruzioni, quando non spontaneamente rinaturalizzate.
Con la foglia di fico di limitare la crescita della città nel territorio rurale (di scarsa appetibilità immobiliare), si regalano alla speculazione aree di pregio nel cuore della città urbanizzata – quelle che il PUG ha individuato e definisce “Ambiti di Trasformazione” – con buona pace del miglioramento dell’ambiente e della qualità della vita dei bolognesi.
Lo strumento principale che il Piano e la legge regionale individuano per governare le trasformazioni urbane è l’Accordo Operativo. Si tratta di un vero e proprio “contratto” da stipulare tra il Comune e i soggetti privati interessati allo sviluppo immobiliare, che stabilisce le modalità di intervento negli Ambiti di Trasformazione. Siamo a quella che viene definita “urbanistica contrattata”, e che fu principio ispiratore e bandiera della legge urbanistica della Lombardia, voluta nel 2005 dalla giunta di centrodestra di Formigoni.
Il Piano Urbanistico, che non è più “regolatore” (come nel 1980) o “strategico” (come secondo la precedente, innovativa, legge urbanistica regionale del 2000), non stabilisce alcuna regola e/o strategia a cui gli Accordi Operativi si debbano attenere. Ci troviamo quindi con l’assessore/storico delle dottrine politiche, assieme ai tecnici comunali, che contratta con team di ingegneri, architetti, immobiliaristi, avvocati, investitori, … di grandi società di sviluppo immobiliare pubbliche (Cassa e Depositi e Prestiti, del Ministero dell’Economia) o private, cosa e come costruire in ciascuna delle aree. Non ci sono limiti a priori. Altezze, volumetrie, tipologie edilizie, superfici a verde, parcheggi, servizi, destinazioni d’uso: tutto è oggetto di contrattazione. Partecipazione dei cittadini nel momento in cui decide come trasformare un pezzo di città? Nulla è previsto.
Come dice Cervellati, “è venuto meno il principio di bene comune: la città è di tutti, non è possibile dover chiamare il privato a risolverne i problemi”.
“La mancanza di cultura urbanistica diffusa, non solo tra i politici e i tecnici, ma anche tra i cittadini, ha portato a una pianificazione debole e a una scarsa capacità di governare i processi di trasformazione, lasciando il campo libero a interessi privati e speculativi”, ci diceva già nel 2010 Giuseppe Campos Venuti nel suo “Città senza cultura. Intervista sull’urbanistica”, in cui ribadisce la necessità della “riscoperta del ruolo del piano urbanistico come strumento per l’interesse pubblico.”
Intanto, dimenticato il “modello Bologna”, ci troviamo una città in cui la crescita economica e le trasformazioni urbane sono governate dal turismo della mortadella e dalla vecchia, cara speculazione del mattone.