Le culture

Bologna, la cultura in affitto

Quando il pubblico svende il patrimonio comune alle fondazioni

di Antìgene

Bologna ha da sempre coltivato l’immagine di città “culturalmente generosa”: teatri storici, festival letterari, musei e una rete di biblioteche pubbliche che sembrano testimoniare un amore viscerale per la cultura condivisa. Ma dietro questa narrazione si cela un modello di gestione culturale che merita uno sguardo critico: la progressiva privatizzazione della cultura tramite le cosiddette fondazioni pubblico-private.

Negli ultimi vent’anni, l’amministrazione bolognese ha progressivamente spostato la gestione di eventi, spazi museali e istituzioni culturali verso enti intermedi, spesso costituiti da una miscela di capitale pubblico e privato. Questo modello, presentato come “innovativo” e “sostenibile”, ha in realtà profonde implicazioni sociali, economiche e politiche. Sul piano pratico, significa che la cultura pubblica non è più un diritto collettivo gestito dal Comune, ma un bene “affittato” a fondazioni le cui priorità sono spesso più vicine agli interessi privati che all’accessibilità e alla partecipazione cittadina.

Un esempio emblematico è la gestione dei principali teatri cittadini, dove fondazioni come il Teatro Comunale di Bologna hanno visto crescere progressivamente il peso dei soci privati, compresi gruppi bancari, imprese locali e sponsor multinazionali. La logica sottostante è chiara: per garantire “sostenibilità economica”, lo Stato locale si sottrae alla responsabilità diretta, delegando la cultura a enti che operano secondo criteri manageriali, in cui la spettacolarizzazione e il ritorno d’immagine prevalgono spesso sul merito artistico e sull’accesso democratico. Così, eventi che un tempo erano parte integrante della vita culturale diffusa diventano pacchetti elitari, destinati a un pubblico selezionato, più interessato a consumare un’esperienza che a partecipare a un dibattito collettivo.

L’impatto si estende anche al settore museale. La Bologna contemporanea affida la gestione di spazi pubblici a fondazioni che integrano capitale privato e pubblico, spesso con regole poco trasparenti e criteri di governance poco partecipativi. La conseguenza è duplice: da un lato si ampliano le opportunità di sponsorizzazione e visibilità per le imprese, dall’altro si riduce lo spazio per la programmazione indipendente e critica, trasformando il patrimonio culturale in un “prodotto” destinato a generare ritorno economico e mediatico. La cultura diventa così un terreno dove il privato decide come valorizzare il pubblico, scegliendo quali narrazioni e quali linguaggi diffondere.

Anche le biblioteche e le iniziative di promozione culturale sul territorio non sono immuni da questa logica. Molti progetti locali vengono co-finanziati da fondazioni con obiettivi strategici propri, spesso legati a marketing territoriale, attrattività turistica o sponsorizzazioni di grandi brand. Il risultato è che la cultura si professionalizza e si “sceneggia” per compiacere interessi economici, mentre i cittadini diventano fruitori passivi di programmi predeterminati, piuttosto che attori di una vita culturale condivisa e partecipata.

Dietro la retorica della sostenibilità e della partnership pubblico-privato, Bologna rischia di perdere ciò che per secoli l’ha distinta: una cultura intesa come bene comune, capace di unire le persone e favorire inclusione, riflessione critica e sperimentazione artistica. Le fondazioni pubblico-private hanno certamente portato risorse e capacità organizzativa, ma a un costo non trascurabile: il progressivo svuotamento del ruolo politico e sociale del Comune come garante della cultura pubblica. In pratica, si affitta al privato ciò che dovrebbe appartenere a tutti.

La sfida, oggi, è rimettere al centro il concetto di cultura come diritto collettivo. Significa ripensare i meccanismi di finanziamento e governance, rafforzare le istituzioni pubbliche, valorizzare la partecipazione dei cittadini e delle comunità, e non limitarsi a delegare tutto al mercato o al capitale privato. Bologna ha gli strumenti per farlo: una rete di intellettuali, artisti, associazioni culturali e cittadini attivi che potrebbero contribuire a un modello realmente sostenibile, in cui il pubblico non sia più un semplice partner finanziario, ma il vero protagonista della vita culturale della città.

In assenza di questo ripensamento, la cultura bolognese rischia di diventare un prodotto di élite, gestito da fondazioni che rispondono più agli interessi economici che a quelli collettivi, e la città – con tutta la sua storia di partecipazione e dibattito – rischia di trasformarsi in un palcoscenico vuoto, dove il vero spettacolo è la vendita del comune al privato.

Molecole correlate