Bologna, la “dotta” in outsourcing.
Biblioteche, musei e la deriva delle fondazioni
Per decenni Bologna si è vantata del suo soprannome “la dotta”: biblioteche civiche capillari, un sistema museale pubblico diffuso, spazi di lettura e studio aperti e accessibili. Questa infrastruttura culturale era il simbolo di un’idea di cittadinanza inclusiva: l’accesso al sapere come diritto e non come privilegio.
Negli ultimi anni, però, la gestione di biblioteche e musei cittadini ha conosciuto una trasformazione profonda, in linea con dinamiche nazionali e internazionali: la progressiva esternalizzazione dei servizi e delle iniziative a fondazioni e soggetti pubblico-privati. Dalle grandi fondazioni bancarie che finanziano progetti espositivi, alle partnership per la gestione di eventi, fino alle esternalizzazioni dei servizi di front office, la cultura bolognese è sempre più affidata a strumenti che nascono ibridi ma operano di fatto con logiche privatistiche.
Biblioteche “ibridate”: più eventi, meno presidio sociale
La rete delle biblioteche comunali è stata un presidio fondamentale di socialità, alfabetizzazione digitale, integrazione. Oggi, con l’affidamento a fondazioni e cooperative, il baricentro si sposta: meno apertura continuativa e personale stabile, più eventi “a progetto” e attività targate da sponsor. Questo impoverisce la funzione quotidiana e capillare del servizio, trasformando luoghi di studio e lettura in spazi di consumo culturale intermittente.
Musei come “brand” e la logica dell’evento
Il sistema museale bolognese vive un fenomeno analogo. Mostre temporanee “blockbuster”, spesso prodotte o co-gestite da fondazioni, generano biglietti e visibilità mediatica, ma drenano risorse dalle collezioni permanenti e dal lavoro educativo. L’idea del museo come servizio pubblico – luogo di ricerca, conservazione e partecipazione – arretra rispetto a quella del museo come “location” e “brand” da vendere a sponsor e turisti.
Le fondazioni: terzo settore o terza via al mercato?
Le fondazioni pubblico-private vengono presentate come strumenti di innovazione e flessibilità. In realtà, funzionano come cerniera tra pubblico e privato, consentendo al Comune di esternalizzare costi e responsabilità, e agli attori privati di indirizzare la programmazione culturale. La governance è spesso opaca e sbilanciata: il potere decisionale non è più in mano alla cittadinanza o ai lavoratori del settore, ma a consigli di amministrazione nominati, dove contano peso economico e reti relazionali.
Un modello in discussione
Questo modello produce effetti concreti: precarizzazione del lavoro culturale, perdita di memoria istituzionale, appiattimento dell’offerta verso eventi redditizi e format standardizzati. La “dotta” rischia così diventa una città-vetrina, dove la cultura è marketing territoriale e non più bene comune.
Verso un’alternativa
Rimettere al centro la gestione pubblica diretta, la trasparenza e il coinvolgimento reale di utenti, lavoratori e quartieri non è solo nostalgia, ma una strategia di futuro. Una Bologna che investe in biblioteche e musei come infrastrutture sociali – non solo come luoghi-evento – rafforza coesione, conoscenza e senso di comunità.
Verso un’alternativa: proposte operative
Se il modello fondazioni-pubblico/privato ha mostrato crepe evidenti, non basta denunciarlo: serve delineare percorsi concreti per tornare a considerare biblioteche e musei come infrastrutture sociali, non come piattaforme per eventi e sponsor. Alcune direttrici possibili:
- Rafforzare la gestione pubblica diretta: riportare in capo al Comune i servizi essenziali (apertura, prestito, educazione museale, archivi digitali) con personale stabile e contratti dignitosi, riducendo l’uso sistematico di esternalizzazioni.
- Bilanci trasparenti e “partecipati”: ogni euro che entra e che esce per biblioteche e musei dovrebbe essere pubblicato e comprensibile ai cittadini, distinguendo risorse pubbliche, sponsor privati e fondazioni. Questo renderebbe visibili priorità e compromessi.
- Consigli di gestione aperti: istituire comitati consultivi permanenti composti da lavoratori, utenti, studiosi, associazioni di quartiere e studenti per contribuire alla programmazione culturale, invece dei soli consigli di amministrazione nominati dall’alto.
- Piani pluriennali per la cultura diffusa: programmare a 5-10 anni investimenti su biblioteche e musei come luoghi quotidiani di studio, cura e ricerca, non solo per eventi “one-shot”. Più fondi per catalogazioni, restauri, alfabetizzazione digitale e attività educative.
- Sperimentare modelli di cooperazione dal basso: favorire esperienze di “community libraries” e “musei di comunità” dove il quartiere partecipa direttamente alla definizione delle attività, ma con garanzie pubbliche di continuità e finanziamento.
- Carta dei diritti del lavoro culturale: collegare ogni progetto culturale finanziato con fondi pubblici al rispetto di standard minimi di salario, formazione e tutele.
Queste misure non richiedono necessariamente più spesa, ma una diversa filosofia di governo: trattare biblioteche e musei come beni comuni e non come assets di marketing territoriale. La “dotta” può tornare ad essere tale non grazie a un “brand” vendibile, ma perché investe nella conoscenza condivisa come diritto e infrastruttura.