Le reti e il territorio

Il Comitato Besta

Il Comitato Besta: un presidio di cittadinanza in una città che cambia troppo in fretta

di Antìgene

A Bologna, quartiere S. Donato, c’è un luogo che negli anni ha smesso di essere soltanto una scuola per diventare anche un simbolo. Parliamo della SCUOLA Besta, SECONDARIA DI PRIMO GRADO e del Comitato che ne porta il nome, nato inizialmente per difendere un diritto fondamentale: il diritto a una scuola pubblica accessibile, sicura, radicata nel territorio. Ma come spesso accade, quando si comincia a lottare per un edificio, si finisce per mettere in discussione un intero modello di sviluppo.

Alle origini del Comitato

Il Comitato Besta nasce nel periodo giugno-luglio al 2023, a ridosso della crisi pandemica, ma il terreno era già fertile da prima. Da anni i genitori, gli insegnanti e i residenti osservavano con crescente preoccupazione le trasformazioni nel quartiere: lo svuotamento di spazi pubblici, la crescente pressione immobiliare, la rarefazione dei servizi, l’avanzata silenziosa della rendita fondiaria. Osservavano che l’amministrazione, sorda a qualsiasi segnalazione, non accennava ad intervenire nella manutenzione di quella scuola lasciandola all’incuria più totale. Quando, all’improvviso,  si palesò il rischio di una sua demolizione non prima di averne costruito al suo fianco una nuova di cemento fiammante . Si apprese, inoltre di altri interventi urbanistici impattanti nella zona, allora il Comitato prese forma come risposta collettiva. Non solo per difendere “la scuola dei nostri figli”, ma per salvaguardare un’idea più ampia di città: una città abitabile, partecipata, che non marginalizzi i cittadini ma li metta al centro.

Non solo scuola: un laboratorio di cittadinanza attiva

Nel tempo il Comitato Besta si è distinto per una visione ampia e coerente della cittadinanza. Non si è limitato a dire “no”, ma ha costruito relazioni, prodotto contro-narrazioni, partecipato a tavoli istituzionali, organizzato momenti pubblici di informazione, confronto, ascolto. Ha dialogato, collaborato con urbanisti, educatori, ricercatori. La scuola è diventata il punto di partenza per riflettere su come cambiano i quartieri, su chi decide cosa, su come si costruisce un futuro urbano. Il Comitato ha sollevato domande cruciali sul destino del patrimonio pubblico, sulle scelte urbanistiche calate dall’alto, sui rischi di gentrificazione mascherati da riqualificazione. Lo scontro tra il Comitato Besta e il sindaco Lepore non è solo locale diventa paradigmatico. La tensione esplode simbolicamente nel Parco Don Bosco, adiacente alla scuola Besta, dove il Comitato e altre realtà del quartiere si sono organizzate in un presidio permanente. La risposta dell’amministrazione è muscolare. In due occasioni, in particolare, la repressione è feroce, le immagini e video del pensionato con il braccio rotto da una manganellata, di agenti in divisa tra i bambini, delle motoseghe accese a pochi centimetri dai corpi degli attivisti, circolano rapidamente sui social, suscitando indignazione e solidarietà. La narrazione mediatica si sbriciola sotto il il peso delle immagini che fotografano una composizione sociale e anagrafica tanto ampia da sfuggire ai codici di classificazione tradizionali dell’“antagonistia-tipo”. E’ un cortocircuito. La repressione si rivela come un boomerang. Il resto è storia, l’azione successiva sarebbe stata ancora più dura, ma come tempistiche troppo a ridosso delle elezioni regionali, difficile far coesistere la campagna del “Matthew-Antifascista” con il bagno di sangue che ci sarebbe stato. Qualcuno ha avuto il buon senso di suggerire una “exit-strategy”: Il passo di lato.

Una città in transizione, ma verso cosa?

Bologna è oggi una città in piena transizione. L’espansione del Tecnopolo, i progetti legati al PNRR, le trasformazioni imposte dal PUMS, la crescente pressione turistica e universitaria stanno ridisegnando il volto della città. In questo scenario, le esperienze come quella del Comitato Besta diventano essenziali per mantenere un legame tra la cittadinanza reale e le istituzioni.

Ma troppo spesso, i comitati come il Besta vengono ascoltati solo per obbligo formale, o ignorati in nome dell’efficienza. La partecipazione è evocata ma non praticata. E così, difendere una scuola pubblica diventa anche una lotta per una democrazia urbana più sostanziale.

Oltre la vertenza: quale futuro per i comitati cittadini?

Il caso del Comitato Besta mostra con chiarezza che i comitati non sono forme arcaiche o “nimby”, ma organismi vivi, capaci di analisi, visione, proposta. Sono il tentativo – fragile ma necessario – di rimettere in circolo l’intelligenza diffusa che abita i territori e che attraverso i Comitati diventa e si esprime come intelligenza collettiva Che futuro avranno dipende anche da noi. Se riusciremo a vederli non come ostacoli ma come interlocutori, non come comparse ma come protagonisti. In un tempo in cui la città rischia di diventare opaca, verticalizzata e silente, realtà come il Comitato Besta ci ricordano che un altro urbanesimo è ancora possibile. Ma va difeso. E costruito, ogni giorno, insieme.

Contatti e informazioni: comitatobesta@gmail.com

Intervista Comitato Besta con Roberto Panzacchi e Sabina Muci

Formatore e attivista Comitato Besta

Formatrice ed attivista Comitato Besta

Qual è stato l’evento o la situazione concreta che vi ha spinto i cittadini a riunirvi e dare vita al Comitato Besta?
La mobilitazione è nata quando un gruppo di cittadini ha scoperto che il Comune intendeva demolire una scuola e cancellare un parco. L’impatto emotivo è stato fortissimo: molti si sono sentiti espropriati di spazi che conoscevano nel dettaglio, nei tempi, negli odori, nelle ombre prodotte dagli alberi e nella socialità che generavano. La sensazione era chiara: stavano portando via beni comuni senza consultare nessuno, in una città che si definisce democratica.
Il Comitato Besta è stato capace di raccogliere nella stessa battaglia varie generazioni e prospettive di lotta . Come è stato possibile? Come si è potuto trovare un equilibrio?
La scuola era un luogo che unisce famiglie, insegnanti, ragazzi e ragazze, punto di coesione sociale e di partecipazione quotidiana. Intorno ad essa ruotavano genitori attivi, consiglieri d’istituto, insegnanti e residenti che l’avevano sempre vissuta come un nodo fondamentale del quartiere. Insieme alla scuola, il progetto toccava anche un piccolo parco, custodito e valorizzato dai residenti, divenuto negli anni un presidio di socialità e cura collettiva. La difesa di questi luoghi ha unito persone diverse. Da un lato c’erano i residenti, più cauti, desiderosi di proteggere il territorio senza però sentirsi “occupanti”; dall’altro attivisti esterni, più radicali e pronti a rivendicare lo spazio come luogo politico. Due visioni differenti ma complementari, che nel confronto hanno trovato equilibrio e forza reciproca. L’arrivo di persone nuove ha obbligato i residenti a misurarsi con linguaggi diversi, sensibilità di genere, visioni ambientaliste e modalità organizzative inedite. Quello che poteva sembrare un ostacolo si è trasformato in un arricchimento. Dal presidio temporaneo si è passati rapidamente a un presidio permanente. Il parco è stato abitato giorno e notte, con turni serrati, trasformandosi in uno spazio quotidiano di assemblee, relazioni, convivialità. In quel luogo la vita del quartiere si è fusa con l’attivismo, dando forma a una comunità eterogenea e combattiva. La pratica dell’ascolto e della mediazione, anche tra conflitti e differenze, è diventata metodo di lavoro.
Avete vinto la battaglia e siete uno dei rari esempi del successo di un’istanza di difesa territoriale dal basso, in che modo la vostra esperienza ha messo in discussione e in crisi l’assetto di potere del comune fino alla rinuncia al progetto?
La vittoria non è arrivata perché il Comune abbia ripensato il progetto, ma perché la situazione è sfuggita di mano: la repressione poliziesca aveva raggiunto livelli di violenza tali da esporre l’amministrazione e il partito di governo al rischio di conseguenze politiche gravissime. Il timore di un’escalation incontrollabile, fino alla possibilità di incidenti mortali, ha spinto le istituzioni a fermarsi. Eppure, al di là dell’esito immediato, il risultato più duraturo è stato il cambiamento di percezione. I cittadini hanno preso coscienza del proprio valore politico, hanno scoperto di poter parlare “alla pari” con tecnici e amministratori, svelando contraddizioni, incompetenza e arroganza del potere. Il presidio è diventato un palco di contro-narrazione: non tanto per convincere il Comune a cambiare idea, quanto per mostrare ad altri cittadini che il potere non è inattaccabile e che le ragioni della comunità sono fondate e legittime.
Quali sono stati i fattori decisivi?
Fondamentali sono stati alcuni elementi: la continuità della presenza H24, che ha trasformato il parco in una casa comune; la comunicazione dal basso, capace di coinvolgere passanti, residenti e nuovi simpatizzanti; la capacità di connettere la difesa locale con battaglie più ampie contro la speculazione urbana e per i diritti alla città. La valorizzazione del sapere popolare, costruito giorno dopo giorno attraverso l’esperienza, ha dato forza e fiducia, superando l’idea che solo i tecnici o i politici avessero voce in capitolo.
Che cosa vi ha insegnato quell’esperienza?
Quell’esperienza ha insegnato che un presidio non è solo una difesa fisica, ma anche un laboratorio di convivenza, un luogo dove ci si educa a nuove forme di socialità e politica. Il parco è diventato un punto di riferimento, un polo di attrazione che ha intrecciato legami ben oltre il quartiere, fino a coinvolgere comitati e reti da tutta Italia. Oggi resta la consapevolezza che i percorsi partecipativi istituzionali sono spesso finti, strumenti già orientati dagli interessi del potere. Ma resta anche la certezza che l’unione fa la forza: attraverso la costruzione di comunità, l’ascolto reciproco e la connessione tra lotte locali e generali è possibile difendere i beni comuni e aprire spazi di libertà e democrazia reale.

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