Le culture

L’Italia senza casa

In Italia non si trovano più case e quando ci sono hanno prezzo altissimi

Nel suo ultimo libro “L’Italia senza casaSarah Gainsforth che è bravissima “ricercatrice indipendente, saggista e giornalista freelance e da anni ormai scrive di casa, abitare e urbanistica” (è autrice per altro di “Airbnb, città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale”, altro libro fondamentale per comprendere cosa stia accadendo alle città in cui cerchiamo di non solo di abitare ma anche di vivere), analizza a fondo la questione abitativa in Italia, ripercorrendo passo passo la storia delle leggi che dalla fine dell’Ottocento ad oggi, tra modificazioni e deroghe, hanno regolamentato la costruzione delle case e il loro abitare, collegandola ai processi di finanziarizzazione, alle politiche neoliberiste e al declino dell’intervento pubblico, e prodotto un modello basato sulla rendita (valore del suolo, rivalutazione immobiliare, locazioni turistiche, credito facile) anziché sulla produzione, sul profitto e sul lavoro.

Ora, uno dei meriti di questo libro è quello di intitolare il capitolo finale con un bel “Basta con la proprietà!” e di offrire così una prospettiva, una possibile alternativa all’apparente inarrestabile processo di distruzione ambientale, di consumo e mercificazione del suolo urbano, che come dimostra non è qualcosa di naturale o addirittura divino, quindi inevitabile se non auspicabile, ma l’effetto di precise scelte politiche, di leggi costruite ad hoc e di destinazione delle risorse.

Come se ne esce? Se ne esce con il ritorno di politiche pubbliche per l’abitare declinate in una varietà di misure possibili, con un forte protagonismo del pubblico nella creazione di una nuova offerta abitativa in affitto, dunque con una dotazione finanziaria adeguata. Se ne esce con politiche per la residenzialità, di “ripopolamento” delle case, dei centri storici e dello spazio pubblico. Se ne esce recuperando una dimensione culturale e politica della casa, oggi mercato. Limitando le attese irragionevoli di remunerazione della rendita, limitando gli affitti brevi turistici, ragionando su un tetto all’aumento degli affitti.

Se ne esce riequilibrando il carico fiscale tra rendite immobiliari e rendite da lavoro, perché le politiche fiscali in particolare sono responsabili dello sbilanciamento a favore di attività immobiliari e turistiche che stanno deprimendo l’economia per via di uno spiazzamento di altri settori. Se ne esce con la fine della vendita del patrimonio pubblico e con la fine degli incentivi per la proprietà della casa”. Uscirne è quindi possibile, ma è necessaria la volontà di cambiare il paradigma: dalla casa come merce e bene consumo alla casa come diritto e valore d’uso.


L’altro grande merito è poi quello di aver ricostruito e illustrato nei dettagli, con chiarezza e l’ausilio di fonti documentate da una ricca bibliografia, il complesso sistema di norme, il reticolato di leggi che regolano o deregolano le azioni attinenti l’urbanistica e la materia edilizia, tra nuove costruzione e recupero dell’esistente, tra funzione del pubblico e intervento del privato, ovviamente in favore di quest’ultimo. In particolare la legge urbanistica n. 1550 del 1942, tuttora in vigore anche se più volte modificata.

È la legge che in breve obbliga i Comuni a fornirsi di un piano regolatore generale e di piani attuativi per definire gli interventi in aree specifiche, le norme edilizie sull’attività costruttiva inclusi i vincoli, gli obblighi dei privati e le procedure per l’approvazione dei progetti. È la legge molto citata in occasione delle ultime inchieste sugli illeciti urbanistici in corso a Milano perché in sostanza impedirebbe di costruire un grattacielo con la sola presentazione di una SCIA.

Poi la legge 179 che nel 1992 introduce i “Programmi integrati di intervento”. Ora sono i privati a poter proporre opere di riconversione e rigenerazione di intere parti di città grazie a particolari accordi, è il privato che interviene a piedi uniti nelle scelte decisionali, scippando in sostanza ai Comuni, che sarebbero gli enti territoriali di massima prossimità e il primo livello della democrazia rappresentativa, il potere sul proprio territorio. Infine la 167 del 1962, che introduce i Piano di Zona PEEP, il cui scopo è contrastare la speculazione fondiaria e favorire la costruzione di alloggi a prezzi accessibili, case popolari in particolare, obbligando i Comuni a individuare e reperirne le aree anche attraverso l’esproprio. L’obiettivo della legge, ricorda l’autrice “non era solo rispondere al fabbisogno di case, ma anche fornire au Comuni lo strumento per guidare lo sviluppo delle città: non solo limitare, ma competere, a tutti gli effetti, con l’iniziativa privata”.

E porta qui l’esempio di Bologna, per altro, viene ricordato, l’unica città italiana a aver interrotto per ora la vendita di suolo e patrimonio pubblico:

“La legge obbliga i Comuni a reperire le aree dove soddisfare il bisogno abitativo con la costruzione di edilizia economica e popolare non limitatamente a zone periferiche o a bassa densità abitativa e non necessariamente con costruzione di scarso valore architettonico, allo scopo non solo di rispondere al fabbisogno di case, ma anche di fornire ai Comuni lo strumento per guidare lo sviluppo della città: non solo limitare ma competere a tutti gli effetti con l’iniziativa privata, si restituire ai Comuni il controllo dell’attività edilizia e dell’espansione della città.

È quello che sceglie di fare tramite la 167 il Comune di Bologna, attraverso un ampio dimensionamento dei Piani di Edilizia Economica e Popolare, concentrati per lo più nelle aree centrali della città, quelle di pregio. Ovvero, destina molto suolo a questi piani e localizza l’edilizia economica e popolare non nelle periferie, come per esempio fa Milano, ma nelle aree nel centro urbano. In secondo luogo Bologna coinvolge i privati e le cooperative di produzione edilizia, che diventano protagonisti del processo di attuazione. In altre parole “prendere sul serio la 167 significava portare dentro le logiche dell’edilizia agevolata una quota importante di quella domanda di abitazione che, in condizioni diverse, potrebbe trovare una risposta sul mercato”, scrive De Pieri.

Ovvero il pubblico, coinvolgendo i privati e le cooperative, riesca a costruire un’edilizia che per localizzazione e qualità compete con quella privata, tanto che gli insediamenti privati “spinti alla concorrenza dalla qualità dei nuovi quartieri PEEP, furono anch’essi ricchi di servizi e di verde, assicurando così la qualità a tutta la nuova espansione urbana”. Questa strategia è esemplare dal punto di vista della capacità del pubblico di guidare lo sviluppo urbano e controllare la formazione della rendita, perché “ribalta la geografia degli operatori spingendo gli attori della speculazione privata per catturare un’utenza che altrimenti si sarebbe rivolta al mercato (ciò avviene oggi in alcune città come Vienna, che ha una percentuale maggioritaria di edilizia pubblica).

Il problema della strategia bolognese, però è legato all’assenza di un’attenzione e di un’offerta specifica per la popolazione più povera. Così il piano ha avuto, ancora una volta, un effetto selettivo verso l’alto, In merito all’esperienza bolognese, l’urbanista Pier Luigi Cervellati ha scritto: “con i PEEP, (i piani di zona) era avvenuto una distribuzione del reddito più o meno interno della stessa classe sociale. Gli imprenditori privati guadagnavano meno, gli utenti (in condizioni economiche medio-alte) risparmiano di più”. 

https://www.raiplay.it/video/2025/04/Una-casa-per-tutti—PresaDiretta—Puntata-del-04052025-8622160d-269d-4f92-9e9d-7fcb1e627253.html?wt_mc=2.www.cpy.raiplay_vid_Presadiretta.

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