Riforma dei Quartieri: anatomia di una promessa
La promessa di una “nuova partecipazione” a Bologna rischia di trasformarsi in una macchina amministrativa sterile: i quartieri come laboratorio di governance, mentre la città vera continua altrove.
La Riforma dei Quartieri è tornata! Il 15 dicembre alle ore di 18 presso la Sala Tassinari del Comune si terrà un evento dove la giunta annuncerà la “nuova stagione della partecipazione”. Parole grandi, slogan luminosi, come quelli delle concessionarie: KM ZERO, DEMOCRAZIA DI PROSSIMITÀ.
Poi ti avvicini e scopri che per ritirare la tua prossimità devi prendere un numero e aspettare in fila. È la stessa di sempre: ribattezzata, ringiovanita, truccata.
Si presenta come “luogo costituente” — nel gergo guru del civismo. E in effetti qualcosa si sta costituendo: un laboratorio di governance civetta, dove la partecipazione è un bene simbolico distribuito a piccole dosi, tramite procedure somministrate in orari d’ufficio.
La grande premessa: più voce ai cittadini
La promessa è limpida: i cittadini entraranno nella stanza dei bottoni. Ma la stanza ha vetri a specchio. Da fuori non vedi dentro. Da dentro non vedi fuori. I nuovi Gruppi Territoriali di Quartiere dovrebbero essere assemblee spontanee, porose, vitali. La parola “spontaneo” oggi è usata un po’ come “bio” al supermercato: se lo stampi sull’etichetta, diventa vero. Gli abitanti sono invitati a iscriversi, proporre idee, sognare insieme. Poi la proposta farà un percorso che passa per: commissioni, comitati scientifici, pareri tecnici, regolamenti, giunte e assessorati. Alla fine torna nell’infografica: “Il quartiere ha parlato”. Ha parlato, sì. Ma con la voce in sordina.
La geografia invisibile
C’è un dettaglio che nessuno ama ricordare: i quartieri bolognesi sono enormi. Troppo grandi per somigliare a comunità, troppo piccoli per essere città. Entità ibride, con decine di migliaia di abitanti ciascuno, storie e problemi che non comunicano tra loro.
È come se chiamassimo “famiglia” l’intero condominio. Nella nostra idealizzazione, il quartiere è vicinato: bar, farmacia, panchina, giardino, incrocio problematico, scuole che si conoscono per nome. Nella riforma è unità amministrativa: organigramma, deliberazioni, atti protocollati, diagrammi a spina di pesce. Questa distanza è la faglia. Tutto il resto è sismologia.
Partecipazione come tecnica
La partecipazione è diventata tecnologia. Si progetta, si facilita, si accompagna. Si “mappa”.
Si costruiscono tavoli, schede di ascolto, momenti di restituzione. Nel frattempo, ai banconi del bar, dove un tempo si decidevano le sorti di interi isolati, la gente si lamenta di cantieri interminabili, autobus pieni, negozi chiusi, case irraggiungibili. Nessuno viene facilitato. L’idea stessa di dare voce ai cittadini è stata industrializzata. Non si ascoltano le persone: si ascoltano formati.
È un po’ come voler fare la pace sociale con i formati del carattere: Arial 12 per la partecipazione, Times New Roman per la protesta.
L’elefante in corridoio: le periferie
C’è una parola magica: periferie. Tutti la pronunciano con rispetto.
Tutti la fotografano con droni. Tutti dichiarano di volerle “ricucire”, come fossero un pantalone strappato. Poi, alle periferie, non arriva quasi nulla: né processi, né servizi, né decisioni.
Le periferie sono un continente che si vede solo quando c’è la conferenza stampa. Nel frattempo, nei capannoni e nei lotti interstiziali tra tangenziali e rotonde, la vita scorre: lavoro precario, badantato, vicinato spontaneo, comunità in auto-organizzazione. Tutto ciò che non entra negli schemi.
La riforma promette ascolto. Ma chi ascolterà? Con quali orecchie? Con quale lingua, soprattutto?
Il nodo vero non è il regolamento
Il vero conflitto non è tra politiche e cittadini. È tra la città vissuta e la città amministrata. La città vissuta è fatta di flussi, errori, amicizie, microscopiche tirannie di marciapiedi e semafori.
La città amministrata è fatta di atti, competenze, iter, scadenze. Ogni riforma dei quartieri tenta di far coincidere queste due mappe. Sono mappe diverse. Sopra una c’è il fiume. Sull’altra il fiume non c’è. Per questo la partecipazione è sempre evocata, ma quasi mai praticata. Per praticarla bisogna accettare l’imperfezione, il conflitto, la lentezza, la dissonanza.
Bisogna riconoscere che le persone non sono stakeholder ma umani.
Che i quartieri non sono “luoghi costituenti”, ma organismi con memoria, ferite, desideri.
Una proposta radicale: meno governance, più vita
Invece di creare nuovi organismi di rappresentanza, potremmo fare una cosa più semplice, quasi banale: aprire i cortili delle scuole fuori orario, rimettere caffetterie nei centri civici, pedonalizzare una piazza al mese, pagare chi fa manutenzione dal basso, scommettere sugli usi non autorizzati, riconoscere il valore dell’informalità
L’urbanistica è una scienza: la città è un animale.
Finché continuiamo a trattare quest’animale come un organigramma, continueremo a stupirci quando morde.
Conclusione: la città che esiste
La Riforma dei Quartieri promette una città migliore. La città migliore esiste già, tutti i giorni, tra le crepe: lì dove le persone si arrangiano, improvvisano, condividono, si aiutano, litigano, costruiscono relazioni che nessun regolamento può produrre. Forse la vera riforma non è scrivere nuovi articoli di statuto. È riconoscere che la città non è una promessa, ma un fatto.
La riforma potrebbe imparare dalla città. Non il contrario.