La città

Villa Paradiso? Quando un presidio civico diventa servizio controllato.

Un centro di comunità unico

Negli ultimi anni Villa Paradiso è stato uno dei centri di comunità più attivi di Bologna: decine di volontari, corsi, eventi culturali e proiezioni. Lo spazio ha visto investimenti concreti e ha ospitato una rete di mutuo aiuto di quartiere molto prima che diventasse parola chiave nel lessico dell’amministrazione comunale. Era un vero punto di riferimento, dove molte realtà e associazioni legate da una visione comune trovavano spazi e agibilità per le proprie iniziative. Tutte, tranne una: più allineata all’apparato narrativo dell’amministrazione “infastidita” dalla convivenza con le altre.

La scintilla: “Il Testimone”

All’inizio di gennaio 2024, un coordinamento di gruppi richiede uno spazio per la proiezione di un film russo. La gestione di Villa Paradiso verifica che la richiesta non violi la carta dei valori delle Case di Quartiere e concede lo spazio per il documentario Il Testimone, sul conflitto russo-ucraino.

La polemica scoppia subito sui social, in particolare da ambienti atlantisti del PD e del mondo liberal-dem, che accusano il centro di “ospitare propaganda russa”. L’episodio non viene trattato come libertà espressiva, ma come test di fedeltà geopolitica. Non è “una polemica tra tante”: diventa l’atto fondativo pretestuale per la delegittimazione, fornendo la narrativa utile al mancato rinnovo della convenzione. È l’allora capo di gabinetto Matilde Madrid a notificare all’associazione che la proiezione non deve avvenire.

Cambio di gestione e delibera del Comune

A dicembre 2024, Matilde Madrid si insedia come assessora al Welfare e Sicurezza del Comune di Bologna, e la gestione di Villa Paradiso passa al suo assessorato. L’annuncio formale del mancato rinnovo della convenzione risale alla delibera della Giunta Comunale dell’8 gennaio 2025, nonostante il Consiglio di Quartiere Savena avesse votato per la continuità della gestione. Successivamente, Pina Picierno (PD, vicepresidente del Parlamento Europeo) dichiara: “Non possono esistere spazi pubblici in cui si legittima la propaganda del regime russo.” La dichiarazione sposta la polemica dal piano locale a quello nazionale. Il caso diventa un vero e proprio “processo alle intenzioni”, nonostante l’associazione decida infine di non proiettare il documentario incriminato.

Il percorso verso l’uscita

Ad aprile 2025, durante una seduta del Consiglio di Quartiere Savena, l’assessora Madrid ribadisce davanti a una sala gremita l’intenzione di non rinnovare la convenzione. L’assegnazione a Cucine Popolari avviene tramite affidamento diretto, nell’ambito degli “accordi di collaborazione/coproggettazione” che il Comune utilizza sempre più spesso per evitare bandi aperti e concorrenziali. Nelle settimane successive, durante incontri privati, l’assessora chiede garanzie per un trasferimento consensuale dell’associazione uscente, discutendo l’assegnazione di una casa di quartiere al Pilastro. A fine giugno 2025, l’associazione lascia pacificamente Villa Paradiso, trasferendo le attrezzature alla casa di quartiere del Pilastro, su indicazione di Madrid, in attesa del nuovo spazio. Tre giorni prima del previsto incontro con i soggetti coinvolti, l’assessora contatta il presidente dell’associazione per comunicare che il trasferimento non si farà più, offrendo di coprire solo il costo del trasloco e proponendo un’altra sede, il San Rafel nel quartiere Savena.

Il ribaltamento del modello di gestione

Con il subentro delle Cucine Popolari, il modello di gestione si ribalta: chi entra è destinatario, non co-costruttore. La partecipazione pubblica e le iniziative si riducono drasticamente, e il giardino — un tempo luogo fruibile e aperto — rimane sempre chiuso.

Non si tratta di riqualificazione, ma di riassetto politico del welfare: si chiudono spazi di autonomia sociale e si sostituiscono con servizi compatibili, non conflittuali, governabili e facilmente sfruttabili a fini elettorali. Villa Paradiso non è più un presidio civico, ma un contenitore controllato, dove la cittadinanza attiva lascia spazio all’utenza passiva.

Conclusione: Bologna perde più di uno spazio

Villa Paradiso non è stata semplicemente “riconvertita”: è stata spenta come comunità. Dove prima si costruiva socialità, appartenenza e cittadinanza attiva, oggi c’è solo servizio erogato dall’alto. La vicenda non racconta una riqualificazione urbana, ma una scelta politica: trasformare uno spazio di autonomia sociale in un luogo controllabile, conforme e silenzioso. In questo processo, Bologna non perde solo una casa di quartiere: perde volutamente la capacità della propria comunità di vivere, partecipare e auto-organizzarsi.

Intervista a Maurizio Sicuro




Attivista e presidente dell’Associazione Centro Culturale Villa Paradiso APS

Può raccontarci come avete appreso che la convenzione non sarebbe stata rinnovata e quali sono state le motivazioni ufficiali e non ufficiali che vi sono state comunicate?
Ci hanno convocato telefonicamente l’8 gennaio 2025 per un incontro il giorno 10, senza specificarne il motivo. Quando ho chiesto chiarimenti, mi è stato risposto che non lo sapevano. Durante la riunione hanno parlato mezz’ora senza dire nulla; alla mia domanda sull’oggetto dell’incontro ci è stato comunicato che “non c’è più la casa di quartiere”, che la gestione sarebbe passata all’assessorato al Welfare. Ci siamo alzati dicendo che non avevano avuto il coraggio di dirci chiaramente che ci stavano buttando fuori.
Quanto pensi che la polemica legata alla proiezione de “Il Testimone” abbia influito sulla decisione del Comune? Ritiene che sia stato usato come pretesto?
Sì, pensiamo che sia stato un pretesto. A nostro avviso le vere ragioni erano altre: il fatto che rappresentassimo un punto di dissenso, di controinformazione e di aggregazione. La proiezione del documentario non era organizzata da noi, ma semplicemente ospitata.
Quali sono secondo te le principali perdite per il quartiere e per la comunità derivanti dal passaggio della gestione a Cucine Popolari?
L’impatto sul quartiere è stato evidente. Molti cittadini si sono lamentati: Villa Paradiso era diventata un punto di riferimento dopo anni in cui il giardino era stato un luogo di degrado e spaccio. Durante la nostra gestione lo abbiamo riqualificato e riempito di attività. D’estate era un centro vivo: rassegne culturali, feste per bambini, corsi per tutte le età — ne avevamo circa venti, con oltre 500 soci. Era un luogo sicuro e accogliente, sentito come bene comune. Ora è diventato una struttura gestita in modo completamente diverso, non più a disposizione della comunità.
Villa Paradiso era uno spazio di partecipazione attiva: in che modo pensi che il modello di gestione attuale modifichi la possibilità per i cittadini di essere protagonisti?
Villa Paradiso era una comunità viva, fatta di cittadini e cittadine di ogni età che partecipavano a corsi, eventi, dibattiti, presentazioni di libri. Decine di associazioni e gruppi usavano quello spazio per proporre idee e affrontare criticità.
La gente del quartiere lo viveva come un luogo proprio, non come un servizio calato dall’alto.
Dopo il consiglio di quartiere del 7 aprile, dove erano presenti più di 200 persone, l’assessora Madrid ha riconosciuto la forza di quella comunità e ha avviato un confronto per individuare una nuova sede.
Puoi descrivere come si sono svolti i contatti con l’assessora Madrid riguardo al trasferimento e quali erano le condizioni che vi erano state prospettate?
I contatti con l’assessora sono iniziati pochi giorni dopo il consiglio di quartiere del 7 aprile. Si è aperto un dialogo per trovare una sede alternativa, in particolare la Casa di Quartiere San Raffaele, chiusa da anni. Successivamente ci è stato proposto il Pilastro, dove l’associazione “Senza il Banco” aveva difficoltà gestionali.
Abbiamo discusso per oltre due mesi la possibilità di una co-gestione, non di una sostituzione. A luglio l’assessora ci aveva detto di portare le nostre attrezzature al Pilastro, assicurando che entro il 13 luglio si sarebbe chiuso un accordo provvisorio, poi formalizzato dopo l’estate. Ma pochi giorni dopo, improvvisamente, ci è stato comunicato che l’accesso era “off limits”, senza alcuna spiegazione.
Dopo questa esperienza, quali insegnamenti o strategie pensa possano essere utili ad altre realtà associative per difendere spazi di autonomia e cittadinanza attiva?
Abbiamo capito che l’amministrazione non tollera le critiche ed è rancorosa verso chi mette in discussione il modello di città. Serve una battaglia collettiva per ridefinire il sistema di assegnazione degli spazi pubblici, creando una rete tra tutte le realtà escluse o marginalizzate, per agire insieme.
Occorre mappare gli spazi sottoutilizzati e renderli vivi, accessibili e ricchi di contenuti, fuori dalle logiche burocratiche. Solo così si può ricostruire un attivismo civico oggi indebolito, come dimostrano anche i bassi livelli di partecipazione elettorale.
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